Lettera a tu

Carə tu,

mi chiedevo quando e come è natə kota mea.

Non c’è un tempo e uno spazio in cui è natə.

È natə insieme a noi o prima di noi?

Ci sopravviverà come unə figliə?

Questo non lo so.

Quello che so, e che sappiamo entrambi, è che kota mea nasce da una frase magica, meravigliosamente semplice: «healing is an act of communion». Per essere precisi, la frase per intero dice: «Rarely, if ever, are any of us healed in isolation. Healing is an act of communion».

È stata scritta da bell hooks e si trova nel suo libro più celebre: All about love. New visions.

Da questo seme nasce kota mea, più come una pianta che come unə figliə.

Mentre scrivo queste righe mi viene in mente anche un’altra frase importante per noi, che abbiamo sentito insieme durante una lezione di antropologia: «ci sono malattie inguaribili ma non esistono malattie incurabili». La professoressa voleva sottolineare la differenza tra ‘guarigione’ e ‘cura’, e forse anche tra due mentalità diverse, due poli opposti da cui osservare la malattia: la guarigione vista come risoluzione definitiva della malattia (come è tipicamente intesa nella medicina occidentale, se la approcciamo in modo estremamente moderno e anche superficiale) e la cura che invece diventa un perpetuo prendersi cura, individuale (del proprio corpo, del proprio spirito, eccetera) e insieme collettivo (indicando perciò, in questo caso, una mentalità che ricorda piuttosto la medicina delle diverse tradizioni orientali, più improntata alla prevenzione).

Quando ci siamo incontrati eravamo molto malati – e lo siamo ancora, se vogliamo essere onesti – ma tramite l’incontro abbiamo potuto scoprire e riscoprire come, prendendoci cura l’uno dell’altra, sia forse possibile guarire. Dove ‘guarire’ – attenzione – non significa risolvere alcun problema, semmai vuol dire attraversare i sintomi, ascoltare il dolore, imparare dal proprio dolore, mettersi faccia a faccia con la morte.

«Sono morto...», così nasce uno dei testi che abbiamo portato sempre con noi, durante i nostri atti curativi; un breve componimento che René Daumal ha scritto negli ultimi mesi della sua malattia (un altro esempio magniloquente e tenerissimo di malattia inguaribile che trova il suo senso nella cura della collettività, della relazione, della reciprocità).

Ecco, forse kota mea nasce da una semplice domanda: possiamo davvero guarire insieme prendendoci cura, di noi come individui e dell’altro come parte di noi?

Ci siamo chiesti se possiamo guarire insieme attraverso la cura. Io penso – o meglio: sento – che sì, possiamo. E che, anzi, è l’unico modo possibile per sopravvivere all’assalto dei tempi in queste macerie d’umanità. Ma non solo noi due. Tutti. E non solo possiamo: dobbiamo farlo.

Il desiderio di portare anche ad altri queste domande, questi processi interiori – come si può portare di domenica mattina, con un fremito dentro al cuore, un mazzo di fiori al proprio amato – ha fatto sì che kota mea potesse iniziare a sporgersi al di là della sfera privata, aprendo una condivisione che sfocia nell’arte, nel rituale e nello stare assieme come comunità. O meglio, sono state queste stesse dimensioni ad affacciarsi a noi, come se pian piano tutto concorresse verso la nascita di questa nuova entità. Siamo stati, allora, travolti da una sincronicità dopo l’altra, e non abbiamo potuto non seguire la strada che ci veniva svelata. A ogni passo.

Ricordo, dopo qualche mese dal nostro incontro, una conversazione con una nostra amica. Le avevo confidato che in quel periodo mi sembrava stessi dedicando tutte le mie energie alla relazione, e di non star facendo molto altro. Lei, col suo fare sempre secco e perentorio mi fa: «eh, ma guarda che le relazioni sono una parte importante nella vita di una persona!». La semplicità e la verità della sua risposta mi aveva spiazzata, e non seppi controbattere.

Spesso, quando va bene, le relazioni si riducono a fare da contorno al piatto principale della nostra vita, ossia: me stesso, il mio individualismo e la mia carriera lavorativa da portare avanti. Se gli altri rientrano in qualche modo all’interno di questo piano, e se non minacciano di fermare o anche solo rallentare il treno in corsa dei miei obiettivi individuali, bene: solo allora, sì, ci si può incrociare frettolosamente qui e lì tra le varie cose, altrimenti ci si mette poco a salutarsi e dirsi addio.

Ritornare ogni giorno alla centralità delle relazioni (si badi bene: non solo quelle romantiche), e dell’altro, ci sembra sempre più un atto rivoluzionario. Per tornare davvero a riconoscere l’altro per chi è, non più come un mero fattore del sistema capitalistico da cui prendere qualcosa a nostro beneficio, un altro fulcro nel cosiddetto network sociale, un altro prodotto a servizio dei nostri schemi (come ci dice Kae Tempest in On Connection: «When we are fixated on what we can get from an exchange, or how we can benefit, instead of considering what we can offer, we are being exploitative. This fixation can be so intrinsic, we imagine ourselves innocent of it. Unintentional exploitation is exploitation, none the less»). In tal senso, ci sembra che tornare – o comunque provarci – a curarsi delle relazioni possa rivelarsi, oggigiorno, rivoluzionario. E questa è certamente una delle cose che kota mea vuole fare: allenare quell’attitudine, individuale e collettiva, a spostare la nostra attenzione dal sé all’altro, o meglio: a cosa c’è tra il sé e l’altro. Fuori da me. Fuori dai miei vortici e dalle mie limitanti narrazioni. E farlo attraverso un linguaggio artistico. Perché è proprio questo spostamento che ci consente di aprirci all’incontro, come ci dicono i preziosi insegnamenti della filosofa Luce Irigaray: «Il disvelamento dell’altro come tale può accadere solo in un ritrarsi del mio progetto su di lui, che lo lasci manifestarsi come quello che è. L’altro non può avere luogo nel mio proprio mondo. [...] Curarmi dell’altro equivale dunque, in parte, alla sospensione delle mie proiezioni o progetti su di lui».

Ma chi è l’altro?

Mesi fa, proprio mentre mi interrogavo sull’alterità nell’ambito dell’ecosomatica, tu ricevevi la proposta di organizzare un laboratorio di Deep Listening, proprio in collaborazione con la pratica dell’ecosomatica. Gli interessi iniziavano a intrecciarsi in maniera organica e magica, e di lì a poco abbiamo ideato, in collaborazione con le artiste Diana Lola Posani e Signa Schiavo-Campo, quello che oggi è Naturale Sconosciuto: un ritiro residenziale di Deep Listening ed ecosomatica. Con Naturale Sconosciuto vogliamo focalizzarci sulle relazioni che intratteniamo con suono, corpo e ambiente naturale. E cercare di coltivare questi campi relazionali, mettendoci in ascolto, non solo con l’udito ma con tutto il corpo-mente, per favorire l’accadimento di un incontro con l’altro da sé. «In questo momento stai ascoltando? / In questo momento stai ascoltando quello che senti? / Mentre ascolti, stai sentendo? / Mentre senti, stai ascoltando?» (Pauline Oliveros, Deep Listening).
Se con il Deep Listening, espandendo l’ascolto all’intero continuum spazio-temporale del suono, facciamo esperienza diretta dell’«essere connessi alla totalità dell’ambiente che ci circonda, e a qualcosa di ancora più vasto» (Pauline Oliveros, Deep Listening); allo stesso tempo, l’ecosomatica ci consente di tornare ad ancorarci nel corpo, il ché implica tornare a sentirsi a casa: dunque tornare anche nel corpo della Terra, nella nostra casa più grande, situati nel nostro posto. Come ci dice Signa, «l’invito è di sperimentare cosa vuol dire essere corpi estesi della natura: come possiamo riconnetterci con un senso profondo di sorellanza e di fratellanza, non solo tra noi come comunità e come gruppo umano ma anche con tutto l’ambito dell’oltreumano».

Il primo ritiro di Naturale Sconosciuto avrà luogo dal 17 al 19 maggio sul Monte Soratte, a un’ora da Roma, e ne seguirà un secondo a fine ottobre 2024.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo alle origini. La prima traccia della scritta kota mea appare proprio sul frontespizio del libro Tutto sull’amore di bell hooks. L’hai scritta tu, a matita: al centro, in grande, KOTA MEA; e sotto, più piccolo PRIMI 100 GIORNI. Quando mi hai regalato quel libro, quella scritta era già pregna di senso, un senso che ancora non comprendevo; che avremmo, però, scoperto insieme dopo vari mesi. E che stiamo ancora scoprendo con il nostro progetto più ‘performativo’ che unisce i nostri background tra danza, scrittura, meditazione, e il mondo rituale dell’invisibile che – va detto – è il vero artefice del nostro incontro.

Se ci ripenso è molto particolare il modo in cui ci siamo incontrati, tre volte prima di sceglierci: la prima volta nel mondo sottile, poi l’abbiamo attraversato insieme quel mondo invisibile, in un abbraccio infinito, tramite una morte e una rinascita – come da tradizione – durante una cerimonia epica e senza tempo, il cui ricordo mi fa ancora venire la pelle d’oca.

Infine, ci siamo ritrovati nel corpo.

“Cos’è l’invisibile?”: una questione che mi ha ossessionato per molti anni.

Per rispondere a questa domanda voglio rievocare un’altra cerimonia, un altro rituale, molto diverso. Un Temazcal davvero speciale che abbiamo fatto insieme un po’ di tempo fa. Ricordo le parole di Odon, l’uomo di medicina che ha condotto la cerimonia. prima di entrare nella capanna: dopo tanto tempo passato a giocare con le nuvole, è tempo di mettere radici, di scendere dal cielo e piantare i vostri pensieri, i vostri voli pindarici, nelle profondità della terra. Da quel giorno sono passati mesi, abbiamo dovuto affrontare insieme la malattia, e poi ci siamo finalmente arresi alle parole di quell’uomo di medicina. Odon aveva visto, nell’invisibile, le potenzialità già realizzate di ciò che stavamo covando dentro, di quello che stava crescendo, del seme che portavamo in noi.

A un certo punto è stato molto chiaro di cosa fosse fatto il seme di cui parlo.

In questo momento si chiama ABOUT LOVE – atti curativi di sovversione.

È molto difficile definire cosa sia, e forse non è nemmeno utile. Abbiamo provato a riassumerlo dicendo che si tratta di un ibrido, tra performance, laboratorio e trattamento, ma ad oggi aggiungerei che si tratta anche di un rituale, di una cerimonia, un’esperienza di cura compartecipata, intima e aperta agli accadimenti del momento.

Immaginiamo una grande stanza, col fuoco acceso; vi si accede solo da bendati e si viene accompagnati nel buio fino al proprio giaciglio, dove ci si può stendere al calduccio, comodamente avvolti da una coperta. Una voce ci guida verso l’altro mondo e così comincia la magia. Si scrivono lettere, si leggono libri, si danza, ci si riconnette al proprio sé – tramite il proprio corpo, agli altri. Si cerca semplicemente di guarire insieme, come suggeriva bell hooks; e davanti al fuoco, come insegnano gli sciamani che abbiamo avuto la fortuna di conoscere insieme.

Da quando abbiamo ideato ABOUT LOVE – atti curativi di sovversione è successo di tutto, ogni occasione chiamava un nuovo incontro attraverso una sincronia precisa ed eloquente.

In principio siamo stati da Ex Rugiada, un piccolo spazio accogliente proprio sotto casa. E lì abbiamo innanzitutto inaugurato lo spazio con una piccolissima performance: Amore subacqueo. Delle letture da Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini di Alexis Pauline Gumbs, che accompagnavano un’improvvisazione che non ho mai potuto vedere, tua. Di sottofondo i canti delle balene. È stato un germogliare timido, ma nel quale c’era già tutto. Undrowned era un libro che avevamo letto insieme e incarnava perfettamente quello che vorremmo dire con ABOUT LOVE. Amore subacqueo infatti cominciava così:

Guarda. C’è qualcosa sopra a tutto questo che ci ha portato qui, insieme. Riesci a vederlo? Riesci a sentirlo? E il cielo è abbastanza grande da contenere tutto ciò che non ha senso in te e in me in questo momento. Qui, sulla riva, il cielo bacia in un solo bacio la terra e l’orizzonte. A volte mi sforzo di vedere l’invisibile, quest’aria che mi sostiene in ogni caso. Ma che luogo perfetto per studiare tutto ciò che non ha vincoli: qui, sulla riva del mare, dove tu metti alla prova i miei limiti ogni giorno. E amarti potrebbe essere il movimento che darà forma alla mia lunghezza, alla nostra forza. E sì, a volte devo gridare i miei limiti. Anche tu. Ora, però, smettiamola e torniamo a respirare il cielo. (Alexis Pauline Gumbs, Undrowned)

C’era già tutto, visto?

Ma ricapitoliamo comunque, come un esercizio di integrazione:

sempre da Ex Rugiada, abbiamo poi tenuto alcune sedute individuali dei nostri atti curativi.

Delle persone speciali, con una generosità a volte commovente, si sono lasciate guidare in un viaggio dedicato a loro e a noi. Una catabasi d’amorosi sensi. Una ierogamia interiore. Per circa due ore, a uno a uno, li abbiamo avvolti con la voce, con la danza, con gli oracoli, con il tatto e l’ascolto. Ci siamo curati a vicenda.

Nel frattempo, in questo sincronico concatenarsi di eventi, siamo stati invitati a fare una residenza artistica da Pianeta Soma, a Miglieglia, in Ticino. In un posto del cuore, animato da una meravigliosa Margherita Tassi che ci ha accolti e sostenuti durante un processo lungo una decina di giorni, cui è seguito un rituale, assieme a un gruppo di sette anime coraggiose. Un momento di impressionante vicinanza tra sconosciuti. Un rituale mistico, un ritorno a casa. E una cerimonia di cura, quasi sciamanica, un’immersione nel mistero ancestrale dell’invisibile.

Quei giorni sono stati estremamente difficili, come difficile è l’amore.

Ogni giorno ci svegliavamo e: potevamo iniziare subito a litigare, per poi entrare in sala; oppure cominciare a litigare solo dopo essere entrati in sala. Quello che accadeva poi in quei settanta metri quadri era un magmatico mescolarsi di alterità, di sudore, di urla disumane e corpi che si trascinano da una riva all’altra dello Stige. Così, ogni giorno. E proprio quando sembrava tutto risolto, grazie a dei piccoli maestri che ci hanno mostrato la via con la loro saggezza invereconda, tutto è crollato nuovamente nel caos. Una tempesta, fino all’ultimo giorno.

Le ore precedenti al nostro rituale ogni cosa sembrava instabile, tutto era messo in crisi. Eravamo impreparati, rancorosi e impauriti. Eppure, abbiamo fatto questo salto nel vuoto (in questo il sostegno di Margherita e la sua fiducia, i suoi consigli, la sua vicinanza sono stati fondamentali). Il salto nell’invisibile è stato davvero come una lunga meditazione, un sogno, un volo magico. Sapevamo esattamente cosa fare.

Durante quei giorni ci hanno accompagnato alcuni libri, che avevamo portato con noi. Mi ha colpito che alla fine della cerimonia i partecipanti abbiano chiesto la bibliografia. Mi ha fatto pensare a un altro maestro spirituale che abbiamo incontrato insieme: Padre Gianni, il priore di Fonte Avellana. Un giorno davanti a una antica Bibbia poliglotta, mi ha chiesto: «a cosa servono i libri?», «possono servire per tante ragioni diverse», ho risposto. «Soprattutto servono per guarire», ha controbattuto lui, «per questo sopra la porta di questa biblioteca c’è scritto pharmacopolium che vuol dire farmacia». Ed è in quel momento che mi è tornata in mente – con un effetto matrioska – la mia insegnante di kundalini, Prem: «tu hai molti otto nella tua data di nascita, che è il numero del guaritore», «ma io non pratico nessuna forma di guarigione», «tu guarisci con i libri, non ti sembra?» mi ha risposto lei, sorridendo beffarda come suo solito. Da quel giorno ho spesso usato i libri come fossero i Tarocchi o i Ching, aprendo le pagine come si apre un mazzo di carte.

E in questa lettera voglio onorare, ricordare e ricapitolare i libri che ci hanno accompagnati fin qui, e che si sono presi cura di noi, condividendoli perché possano guarire anche altri amici e amiche:

bell hooks, Tutto sull'amore. Nuove visioni (il Saggiatore)

Alexis Pauline Gumbs, Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini (Timeo)

René Daumal, Il lavoro su di sé. Lettere a Geneviève e Louis Lief (Adelphi)

Ibn ‘Ata’ Allah, Sentenze e colloquio mistico (Adelphi)

Julio Cortázar, Le ragioni della collera (Fahrenheit 451)

Lucia Palladino, entrare nel bosco. o come praticare l'anticapitalismo (NERO)

Sara Gamberini, Maestoso è l'abbandono (Hacca)

Boris Groys, Filosofia della cura (Timeo)

Platone, Simposio (Adelphi)

Il Cantico dei Cantici (Adelphi)

Simone Weil, La persona e il sacro (Adelphi)

David di Dinant, Mente Materia Dio (il melangolo)

Clarice Lispector, Acqua viva (Adelphi)

Georg Simmel, Sull'amore (SE)

Osho, L’amore nel tantra (SE)

Fernando Pessoa, Poemetti erotici (Passigli)

Oltre ai libri e alle parole, ci hanno accompagnato il corpo e il movimento e, ovviamente, il fuoco. Siamo stati nella parola o nel corpo, a volte scegliendo consciamente, a volte no. A volte intrappolati in una rigidezza tutta razionale, e altre volte liberati da delle lunghe improvvisazioni che portavano a galla tutto quel che c’era da vedere, così da potervi respirare dentro con grazia o con furore.

Dopo dieci giorni allo spazio La Florìda in Svizzera, sono tornata a Roma frastornata, il mio corpo ha rilasciato tutta l’intensità del lavoro ‘fatto’, o attraversato, e sono sprofondata inaspettatamente per due giorni nei miei abissi interiori, a scavare, senza ragione; a fissare per ore l’improvviso intorpidimento del mio essere che aveva deciso di tornare – più forte di prima – nella cara vecchia oscurità. Era una fase di integrazione?

Al quinto giorno di residenza ti ho chiesto, con sfrontatezza: «che ci siamo venuti a fare in Svizzera?». Non avevo ancora capito la reale motivazione del nostro approdo sul Pianeta Soma. E, addirittura, al settimo o ottavo giorno – non so, ho perso il conto – ho scoperto, mio malgrado, che quello che stavamo tentando di fare non era, a tuo dire, nemmeno un “progetto artistico”. Come se volessi, a tutti i costi, sminuire, mettere da parte il livello artistico della nostra inconsapevole spedizione oltrefrontiera.

Travisavo il senso delle tue parole, e forse, anche il senso del nostro progetto.

Abituata a lavorare a progetti artistici nell’ambito della danza contemporanea (e spesso all’interno di tempistiche ristrette dettate dall’ormai nota produttivizzazione dell’arte che rischia di succhiare via l’anima di qualsivoglia pulsione creativa) portavo in sala un desiderio di produttività e di struttura, e una necessità di “provare”, perché potessero guidarci nei giorni della residenza. E ogni volta questo mio proposito veniva sfaldato dal ‘qui e ora’, che si rivelava sempre più potente: un maestro inascoltato che cela gemme rare ma anche bei muri in faccia.

Ci siamo interrogati sul significato del “provare”: cosa voleva dire nel nostro caso “fare le prove”? Come ci si prepara per una performance? E come, invece, per un rituale? Qual era la chiave necessaria ad aprirci – entrambi – affinché l'atto curativo potesse manifestarsi? Abbiamo dovuto sovvertire tanti pattern, lasciarci rimescolare nella melma più oscura, attraversare tutto il nostro futuro in una visione lunga qualche ora, e ribaltare tutte le assi interiori che fino a quel punto avevano definito il nostro stare al lavoro e alla relazione, per cercare – spesso a tentoni, e certamente non come una decisione presa a tavolino – una metodologia di lavoro che non solo facesse da comune denominatore tra le nostre attitudini individuali, ma che fosse anche la ‘giusta’ metodologia per questo progetto (che non so più nemmeno se sia giusto chiamare progetto).

Per kota mea c’è sicuramente ancora tanto lavoro da attraversare per raggiungere quell’equilibrio labile tra l’ascolto di ciò che è necessario nel momento (anche se sembrerebbe portarci fuori rotta) e la pianificazione razionale delle pratiche da portare avanti. Tra il femminino e il mascolino. Tra l’intuizione e l’azione. Ma qualcosa è successo quella sera, il venticinque aprile, durante la “restituzione al pubblico” del nostro lavoro residenziale. La tua voce non era la stessa. La voce del fuoco, la stanza e l’aria che ci riscaldava il viso, nemmeno. La mia danza era diversa; era diventata un’oscillazione tra i mondi, a servizio non solo di chi guardando la esperiva, ma a servizio proprio di quel mondo che chiedeva, nel silenzio, di emergere, e che mi muoveva (come nella danza Butoh, non ero io a muovermi, ero, piuttosto, mossa dabeing moved by o danced by). Infatti, se da un lato «nella danza si penetra nella coscienza del corpo, nell’energia della materia» (Virgilio Sieni, Danza Cieca), essa stessa, con il suo linguaggio di transitorietà ed evanescenza, si spinge oltre la sfera del tangibile, aprendosi all’invisibile che il danzatore attraversa, momento per momento, con le tracce dei ‘suoi’ movimenti. Il movimento genera così una presenza espansa, che vive oltre il corpo.

Quei quattordici occhi divenivano parte del nostro mondo e noi parte del loro. Tutti ci dissolvevamo, in quel momento, nell’esperire se stessi e l’altro nell’incontro, non solo l’osservato e l’osservatore, separati. Uno, tutto. Come in un tempio. Proprio come scrive Lucia Palladino in entrare nel bosco: «per incontrare l'altro da me devo entrare nel tempio (templum), devo andare in quel luogo dal quale è possibile percepire ciò che non è uguale a me. Devo dislocare me stessa fino al punto in cui non è a proposito di me né a proposito di te, ma di qualcosa che non sappiamo ancora nominare. [...] Il templum è un taglio nello spazio e nel tempo».

Per sua natura, ABOUT LOVE atti curativi di sovversione intesse tra loro vari livelli: il livello personale e relazionale, quello artistico della performance, del laboratorio, il livello di cura, del cerchio, della condivisione, della lettura, del corpo, della parola; livelli che si possono riassumere in tre sfere: sfera individuale; sfera relazionale-comunitaria; sfera artistico-performativa.

All’interno di questo fitto tessuto, il partecipante/spettatore diventa parte integrante del nostro procedere, e si fa esso stesso agente di cura verso sé stesso e verso il resto del gruppo-mondo.

Così, come sulle montagne russe, tra il caos, l’entusiasmo, la nausea, lo sconforto, i viaggi nell’altrove, le pazzie, le contemplazioni: abbiamo proseguito. Stando in quell’odioso, eppur sacro, non-sapere fino all’ultimo. E solo poco prima della nostra ripartenza verso casa abbiamo realizzato di essere solo dei naufraghi, proprio mentre scrivevamo i nostri ringraziamenti a Margherita: «Cara tu, grazie. Grazie per aver creduto nel vento che ti ha portato a casa questi due naufraghi dal sud, [...] Sarà grazie a te se forse torneremo a casa». Ecco, forse passo dopo passo stiamo tornando a casa. Insieme. E – speriamo – insieme a tutti voi.

Questə è kota mea, adesso.